Insieme al Tibet, in Cina noto come Xyzang, un altro importante nucleo in cui nel corso dei secoli si sviluppò il Buddhismo fu la Mongolia, sia quella Interna, oggi regione autonoma in seno alla Repubblica Popolare Cinese, sia quella esterna, costituitasi in Stato a se stante nel 1911, quando la Russia zarista ne favorì l'indipendenza dalla Cina nel frattempo caduta nel caos per via della caduta della dinastia imperiale dei Qing.
Tibet e Mongolia non sono ovviamente gli unici due grandi capisaldi del Buddhismo, ma se consideriamo l'apporto che gli hanno dato in termini teologici, rituali e mistici possiamo senza dubbio affermare che l'importanza di queste due grandi aree geografiche si equivalga. Ne abbiamo per esempio delle valide e documentate conferme nei testi dell'autrice Maria Morigi, cominciando da "La Perla del Drago" a "Il Patrimonio dell'Umanità", fino ad arrivare ad "Afghanista. Storia, geopolitica, patrimonio", dove si descrive in maniera altrettanto delineata anche il grande passato che la religione buddhista conobbe prima dell'islamizzazione in Afghanistan, con ulteriori peculiarità davvero inimmaginabili per chiunque sia digiuno in materia.
Nel caso della Mongolia, seguendo una modalità che del resto ha caratterizzato anche altre numerose aree del mondo, il Buddhismo s'è mescolato con altre religioni e credenze già esistenti in precedenza o che sono giunte nel corso del tempo, e proprio questo aspetto ha permesso a tale regione di acquisire un'importanza e una personalità culturale di altissimo livello. Si tratta dunque di un patrimonio culturale, storico e tradizionale immenso, che va ben oltre i numeri della popolazione sia della Mongolia indipendente che di quella regionale in seno alla Cina Popolare influenzando altre e molte più persone ancora, e che proprio per questo chiunque nel mondo avrebbe a cuore a preservare affinché si possa mantenere forte e vivo anche nel futuro.
Tuttavia, esattamente come nel caso del Tibet e più recentemente anche dello Xinjiang, a partire dagli Anni '50 ha preso sempre più piede in Occidente una narrazione tesa a descrivere il governo cinese come autore di drammatici "genocidi" non soltanto in senso demografico ma anche e soprattutto culturale, e quindi religioso, linguistico ed archeologico. Tali accuse, che nel tempo erano state rivolte anche a tanti altri paesi governati da autorità invise in Occidente, non rappresentano dunque una novità e come spesso avviene neanche dimostrano una particolare fantasia; men che meno, una particolare credibilità. In tutti questi casi servono invece a nascondere dietro buone ragioni, a prima vista inattaccabili e legate ai diritti umani e al rispetto della cultura, ragioni ben più "terra terra", come la causa del separatismo che spesso e volentieri sfocia in aperto terrorismo, per giunta anche sostenuto in modo tutt'altro che disinteressato dall'esterno.
Nel caso del Tibet, o Xyzang, le accuse di un drammatico calo della popolazione e delle sue natalità legato ad un genocidio "manu militari" sono state ben presto smentite dai numeri, che testimoniavano invece come la popolazione locale, dal 1950 al 2000, fosse semplicemente aumentata di sei volte, e questo escludendo ovviamente gli altri cittadini appartenenti ad altre etnie cinesi venuti ad abitare in quella regione nel frattempo. E' semmai vero, invece, che nel 1950, al momento in cui il Tibet o Xyzang rientrò in seno alla nazione cinese, la popolazione a malapena si aggirasse intorno ad un solo milione di persone, in condizioni di gravissima povertà legate ad un sistema produttivo ancora di sussistenza, segnato dal feudalesimo e da un governo teocratico, oltre a decenni d'influenza straniera. Per quanto riguarda il genocidio nei suoi aspetti culturali, basta semplicemente al visitatore recarsi oggi nel Tibet o Xyzang per poter constatare coi propri occhi come il grande patrimonio storico, artistico, culturale e religioso del territorio si trovi in ottima salute, ricevendo attenzioni che ben di rado si vedono riservare per i musei, i monumenti e i siti archeologici di casa nostra. Anche per lo Xinjiang e per la Mongolia interna non è ovviamente molto diverso.
Nel corso degli ultimi anni in Occidente ha un po' attecchito il tema del "genocidio culturale mongolo", ripetendo il copione già visto per il Tibet o Xyzang e soprattutto quello successivamente introdotto per lo Xinjiang, e che al momento pare essere quello che ha conosciuto un maggiore riscontro sull'opinione pubblica. Il copione tibetano, lungamente utilizzato e forse anche per questo pure parecchio abusato, col tempo ha cominciato a stancare un po' una parte di persone, che non lo seguono più con l'entusiasmo di un tempo; ma, essendo pur sempre un copione ormai decisamente molto collaudato, ha comunque attecchito con un discreto e crescente successo non appena è stato applicato allo Xinjiang. Del resto, anche in questo caso vi era una notevole potenza di fuoco assicurata da fondi, media e personalità politiche, oltre ad una platea potenzialmente ancora più vasta della precedente, visto che oltre a rivolgersi a molti occidentali facendo perno sulle loro pregiudiziali anticinesi si poteva fare appello anche a tanti musulmani non occidentali intuibilmente sensibili verso argomenti riguardanti le sorti di molti loro correligionari.
Tuttavia l'apparizione del cosiddetto Southern Mongolian Human Rights Information Center (SMHRIC) lascia ben comprendere come, al di fuori della Cina, e non soltanto in Occidente, si miri a replicare quanto già è stato fatto con analoghi istituti sui diritti umani nel Tibet o Xyzang e nello Xinjiang. Tali istituti, partecipati da varie realtà politiche, mediatiche ed associative, ricevono cospicui fondi da più parti, prevalentemente Stati Uniti e paesi UE, ma anche da altri governi loro alleati, oltre che da varie fondazioni direttamente o indirettamente collegate a tutti quanti. Al loro interno lavorano personalità di vario calibro, attive nei settori più disparati, dall'informazione all'attivismo, dalla strategia alla politica, con l'obiettivo d'influenzare i centri politici e mediatici dei paesi alleati così come di quelli ancora neutrali e che si vogliono portare dalla propria parte. L'obiettivo principale, ovviamente, rimane sempre quello di emarginare e contenere il nemico, in questo caso rappresentato dalla Cina e dal suo attuale governo, e contemporaneamente d'infiltrarla promuovendo sempre la nascita e la crescita al suo interno di elementi considerati "favorevoli" alla "causa".
Non è un caso che uno dei testi più importanti tra quelli prodotti dal SMHIRC, "Genocide on the Mongolian Steppe", scritto in giapponese da Yang Haiying, abbia ben presto potuto incontrare in ogni paese, Italia compresa, traduttori e qualche personalità disposta a promuoverlo, in ambito accademico o mediatico a seconda delle possibilità, con l'obiettivo d'influenzare quella élite politica e culturale a cui spetta il compito di formare culturalmente e politicamente le nuove generazioni di universitari, di giornalisti e di dirigenti politici. Del resto, ciò rientra anche nei piani che il SMHIRC si è dato, come sostanzialmente espresso anche dal suo direttore, Enghebatu Tagochog, che nel 1998 lasciò la Cina per riparare dapprima in Giappone e quindi negli Stati Uniti, dove ottenne l'asilo politico. Con minor ascolto e seguito nell'opinione pubblica ma potendo comunque contare sui medesimi amici ed alleati, anche i separatisti della Mongolia Interna tentano di riattuare il copione già applicato a suo tempo con maggior successo dai separatisti tibetani e dello Xinjiang.