Il 29 aprile scorso, a Roma, presso l'Ambasciata degli Stati Uniti, si è tenuto un webinar facente parte della più ampia serie di "Giovedì Transatlantici", ovvero d'incontri riguardanti tematiche chiave per gli interessi politici, economici e culturali dell'area atlantica e dell'ideologia atlantista in generale. In questo caso, si parlava dello Xinjiang, con un titolo ben preciso: "Human Rights in Cina: the Uyghur Community". Ormai la Cina compare sempre più frequentemente in tutti questi incontri dedicati alla politica americana ed europea e a quanto pare è una tendenza a cui dovremo sempre più abituarci.
A moderare l'incontro di questo incontro era Kimberly Krhounek, segretario consulente per gli affari politici presso l'Ambasciata statunitense a Roma, attorniata da Giulia Pompili, responsabile per l'area Asia e Pacifico presso il noto quotidiano italiano "Il Foglio", e da due importanti voci della "causa uigura", Rushan Abbas e Rahima Mahmut. La prima è fondatrice a Washington del celebre gruppo "Campaign for Uyghurs", mentre la seconda è una cantante e dirigente a Londra della branca inglese del "World Uyghur Congress". Sono dunque tutte figure ormai ben conosciute ed affermate, che da tempo si occupano di tale materia muovendosi chiaramente in una direzione che rientra perfettamente negli auspici della politica di Washington così come di Londra e di Bruxelles.
Entrambi gli esponenti uiguri hanno ovviamente descritto di nuovo quanto solitamente già affermato in altre situazioni, riguardo persecuzioni di cui i musulmani uiguri sarebbero oggetto nello Xinjiang da parte delle autorità cinesi, col solito abbondante repertorio già sentito in altre narrazioni a tema anticinese ma non solo (si sono sentite spesso, in passato, riguardo l'Unione Sovietica così come sulla Russia odierna, oltre che su altri paesi ex sovietici ma anche africani e latinoamericani messi all'indice dall'alta politica statunitense): e quindi, rapimenti a scopo di carcerazione arbitraria, sterilizzazioni ed aborti forzati, campi di detenzione e di rieducazione, e distruzione e dispersione del patrimonio storico e culturale locali. Durante il "botta e risposta", il cosiddetto "Q&A", sono poi sorte alcune domande davvero interessanti, va da sé precedentemente concordate, e tese dunque a fornire delle risposte che a tutti i partecipanti così come agli organizzatori dell'incontro stavano molto a cuore.
Una di queste, per esempio, è perché in Occidente ancora si fatichi a parlare di "genocidio" nel caso dello Xinjiang. Passi per i funzionari del Partito Comunista Cinese e coloro che in Occidente vi collaborano, così recitava in sostanza la domanda, ma perché anche gli "altri" tendono ad essere così in vaghi? A dire il vero, a nessuno di noi guardandosi intorno è mai sembrato che vi fosse tutta questa reticenza, dato che per esempio numerose trasmissioni televisive, da Rai Tre a Rete Quattro per parlare di un pubblico che spazia dalla sinistra alla destra, spesso e volentieri fanno servizi dove immancabilmente si attacca Pechino tirando fuori anche la faccenda dello Xinjiang. E non parliamo poi di internet, dove altri blogger e giornalisti "quotati" non perdono occasione per fare altrettanto, spesso citandosi ed imitandosi fra di loro; per giungere poi alla carta stampata, dove su giornali di grande peso e dalle tuttora elevate tirature (per intenderci il Corriere della Sera o La Stampa, non certo Il Foglio che si è sempre accontentato di un pubblico meno esteso), capita con altrettanta frequenza di leggere lunghe ed infiocchettate invettive anticinesi non prive, anche in questo caso, della parola "Xinjiang".
Eppure, secondo coloro che presenziavano a questo webinar, lo Xinjiang e il suo "genocidio" sarebbero ancora un tabù, forse perché nella realtà non esiste, basandosi soltanto sulle ennesime prove fabbricate che abbiamo già visto utilizzare in tante occasioni del passato anche contro altri destinatari, non soltanto la Cina, ma anche la Libia, la Siria o, quando ancora esisteva, la Yugoslavia. Anche l'insistenza di tutti questi "addetti ai lavori" di voler spesso e volentieri, per non dire sempre, usare il concetto di "Turkestan Orientale" in luogo di "Xinjiang" fa del resto capire molte cose, non ultimo anche la loro simpatia per la causa separatista che sta molto a cuore anche a tanti altri, si pensi alla Turchia o alle petromonarchie del Golfo Persico.
Forse anche per questo si cerca a tutti i costi d'influenzare il più possibile l'ONU facendo come al solito perno sulla questione dei diritti umani, prova ne siano documenti come quello di recente prodotto dal The Newslines Institute, a cui ha collaborato anche un'altra organizzazione ben attiva su tal fronte come il Raoul Wallenberg Center. Parliamo, sempre e comunque, di enti che pendono letteralmente dalle labbra di Washington e di Londra, e che ne fanno passo dopo passo la politica senza mai sbagliare di un solo millimetro: e già questo dovrebbe far riflettere sulla loro credibilità, così come su quale sia l'origine dei cospicui fondi economici su cui sempre possono contare; due riflessioni che del resto valgono anche per tutti gli altri istituti attivi nel campo dei diritti umani e della questione uigura a maggior ragione.
Tutte le loro documentazioni hanno un fortissimo impatto anche sulla politica italiana, come dimostrato anche dal sempre più vigoroso zelo che partiti ed associazioni, in particolare della destra ma anche della sinistra, manifestano nello sposare campagne di protesta contro Pechino sulla questione dello Xinjiang. In passato, del resto, lo facevano in merito allo Xyzang-Tibet e in tempi più recenti hanno cominciato a farlo anche su Hong Kong, oltre che sull'affaire Covid. Non sorprende pertanto che al webinar sia apparsa anche l'opinione del giovane deputato italiano Paolo Formentini, in quota Lega, che non molto tempo fa in Parlamento ha presentato proprio una risoluzione sul "genocidio uiguro": ma non è di certo l'unico a portare avanti, dentro e fuori il nostro emiciclo, una tale "crociata".
Certo, se pensiamo che è lo stesso partito che poi, quando si tratta di parlare di altre regioni del mondo, improvvisamente ritorna ad essere islamofobo, lascia davvero perplessi vedere come in questo caso invece la sua politica si muova in tutt'altra direzione, ovvero nel difendere il fondamentalismo e il terrorismo di matrice islamista mascherandoli come semplici ed inoffensivi cittadini musulmani ingiustamente perseguitati. Evidentemente i musulmani arabi o africani, per la Lega, sono invece soltanto tutti terroristi e fondamentalisti, dal primo all'ultimo, vecchi e bambini compresi.