Il mese di maggio ha visto la nascita a Londra di una nuova organizzazione uigura, la World Uyghur Christian Union, con l'obiettivo di “diffondere la lieta novella della sua fede nel suo popolo". La conferenza inaugurativa, dal più che chiaro titolo “La ricerca uigura del Vangelo”, mirava a rivendicare come molti uiguri prima dell'arrivo dell'Islam fossero in realtà stati cristiani e a quel punto indotti a convertirsi alla nuova religione.
Certo, prima dell'arrivo dell'Islam molte regioni dell'Asia Centrale erano dedite ad altri culti, dallo Zoroastrismo al Buddhismo, fino al Manicheismo e via dicendo; e non mancavano neppure significative presenze cristiane, in verità tuttora presenti in alcune aree non soltanto dello Xinjiang ma anche in tutto il resto della vasta regione centroasiatica, dal confine cinese passando fino alla Turchia. Non parliamo soltanto di comunità sorte successivamente, ma anche di comunità preesistenti e sopravvissute nel corso del tempo seppur in piccoli numeri e con alterne fortune. A qualcuno per esempio sorprenderà sapere che esistano, nello Xinjiang, alcune zone a forte presenza cristiano-ortodossa, dove anche l'architettura e le usanze locali ricordano apertamente il mondo russo, o consimili zone in cui spiccano per numeri le comunità cattoliche e quelle protestanti. Un libro uscito recentemente come “Lo Xinjiang Moderno” di Li Xinping può in tal senso rivelarsi davvero sorprendente e soprattutto esaustivo.
Tuttavia un conto è ribadire una legittimità dell'esistenza e della presenza di cristiani nello Xinjiang, cosa in Cina peraltro già ampiamente riconosciuta e su cui nessuno ha mai avuto alcunché da ridire, ed un conto è insinuare o addirittura pretendere che nella regione l'Islam abbia meno legittimità ad esser praticato rispetto al Cristianesimo per il fatto di esservi giunto solo successivamente. In questo senso sarà davvero molto difficile far convivere la World Uyghur Christian Union coi suoi corregionali musulmani della World Uyghur Forum, malgrado la comune avversione al governo di Pechino, il fatto di operare all'estero e su libro paga dei medesimi “benefattori” inglesi ed americani, e le neanche troppo celate contiguità con ambienti settari, separatisti e terroristi. Basteranno questi ultimi tre elementi a farli andare d'accordo oppure il rischio di un “corto circuito” tra gli uiguri anticinesi all'estero finirà per ritorcersi contro costoro e contro i loro “benefattori”? Il tempo ce lo dirà, e probabilmente non servirà neanche una troppo lunga attesa.
Infatti, negli ultimi tempi, abbiamo assistito ad una marcata virata nella politica anticinese occidentale: i fondi stanziati per la causa uigura, così come quelli per promuovere altre realtà ostili a Pechino quali il Falun Gong o il Lampo da Levante, sono stati decurtati a vantaggio di altri gruppi, politici, settari e mediatici, attivi sulla questione di Taiwan e del Pacifico. Secondo inglesi ed americani la “madre di tutte le battaglie” con la Cina si giocherà là, e pertanto è bene concentrar là i fondi e le energie rimaste anziché disperderli in altri ambiti finora non rivelatisi sufficientemente fruttuosi. In tal senso, quello dei cristiani uiguri e della loro World Uyghur Christian Union potrebbe presentarsi come un ultimo tentativo dei settori più affini alla causa uigura per continuare a rimanere sul libro paga di Londra, Washington e Bruxelles. Se la cosa avrà fortuna, anche in questo caso lo vedremo tra non molto; ma c'è da dubitare che possa davvero funzionare.
Certo, lo zelo anche quelli della World Uyghur Christiany Forum ce lo mettono tutti: Enver Tohti, l'amministratore delegato della neonata realtà, nel corso della conferenza di presentazione a Londra non ha esitato, per esempio, a far sua anche la vecchia “fake news” sull'industria cinese del prelievo di organi dai detenuti uiguri; una tesi a suo tempo inventata dal Falun Gong e che ebbe una discreta e sinistra fortuna mediatica, più volte smentita sotto ogni aspetto ma con tutto ciò sempre sordamente riaffermata dai suoi ideatori, che evidentemente non hanno molto altro su cui puntare e che del resto mirano a rivolgersi ad un pubblico tanto impreparato quanto credulone.
Se questi sono i “cavalli di battaglia” con cui gli aficionados londinesi della causa uigura, come l'ex giornalista BBC David Campale o l'inviato speciale del primo ministro per la libertà religiosa David Burrows sperano di poter rimanere sulla cresta dell'onda presso i loro “benefattori” insieme ai propri “protetti”, in sinergia col segretario generale della commissione parlamentare per i diritti umani di Taiwan, l'uiguro Orkesh Davlet, allora vien proprio da pensare che non potranno durare molto a lungo. Dovranno pur inventarsi, prima o poi, qualcosa di nuovo e di più convincente.