Ha destato particolari clamori, soprattutto in Australia, nello stato della Tasmania in cui è situata, il caso della setta buddhista Jin-Gang-Dhyana, guidata da Wang Xin De. Conosciuto anche come Maestro Wang, i suoi adepti lo considerano un Buddha vivente, ma in sé ciò non dovrebbe più di tanto sorprenderci se consideriamo che per quasi ogni setta del Buddhismo il proprio capo spirituale sia solitamente considerato tale. Tant'è che in tutto il mondo, guardando al vasto corpo del mondo buddhista, il numero dei Buddha viventi, autoproclamati o definiti tali dai loro seguaci, è tale da risultare difficile da contare in pieno.
Per non perderci per strada, forse è opportuno fare prima alcune precisazioni. Il concetto di “setta” che viene riferito al Buddhismo, che sia tibetano o giapponese, come di altre aree geografiche ancora, intende una “scuola di pensiero” e non dunque il concetto di “setta” che invece siamo soliti adoperare quando parliamo ad esempio del Falun Gong o di Scientology, vere e proprie “entità chiuse” con precise caratteristiche coercitive e manipolatorie sui suoi adepti. Nel Buddhismo tibetano le “sette” o “scuole di pensiero” sono varie, e nella lunga storia della regione molte sono apparse e poi si sono estinte solitamente ruotando intorno ad uno o più monasteri che ne facevano da centri di riferimento. Ad un certo punto della storia tibetana ad affermarsi sulle altre sette storiche, che fino a quel momento avevano a seconda del caso detenuto un ruolo egemone in base al meccanismo della reincarnazione dei Dalai Lama o Buddha viventi, fu la setta Gelugpa, nota anche come setta dei Berretti Gialli. Le prime due autorità religiose tibetane, il Dalai Lama e il Panchen Lama, fanno riferimento alla setta Gelugpa, mentre la terza per ordine d'importanza, il Karmapa, fa riferimento alla più tradizionale setta Kagyupa o dei Berretti Rossi. Questo appunto ci fa capire come pure lo stesso Dalai Lama, oggi in autoesilio a Dharamsala in India con un proprio governo non riconosciuto dalle autorità dopo il tentativo di rivolta del 1959, non rappresenti pienamente la stessa setta Gelugpa che invece nella Regione Autonoma del Tibet (Xyzang) viene intanto portata avanti dal Panchen Lama, pienamente riconosciuto e in buoni rapporti con le autorità locali e di Pechino. Ciò implicitamente indica pure come né la sola setta Gelugpa né tantomeno l'intero Buddhismo tibetano siano rappresentati dalla figura del Dalai Lama, che invece viene nientemeno indicato all'estero come rappresentante di un'intera dottrina religiosa perseguitata nel suo paese.
Tuttavia, per tornare al caso della setta Jin-Gang-Dhyana e non esulare da quanto volevamo inizialmente raccontare, da qualche tempo in Australia sono sorti un po' di dibattiti in merito alla sua natura e all'operato della sua guida spirituale, il Maestro Wang, accusato d'indurre gli adepti ad abbandonare le famiglie d'origine o d'averne fatto crescere i membri in isolamento dal contorno sociale, a partire dalle scuole. I media australiani, riportando informazioni anche da Hong Kong, hanno cominciato così a parlare della Jin-Gang-Dhyana come di una vera e propria “setta”, quella che in inglese si è soliti definire col termine di “cult”, intuibilmente non proprio analogo alla più semplice e generica parola italiana “culto”. Il canale ABC, in particolare, è sembrato quello più solerte nel seguire la vicenda e probabilmente anche nell'alimentarla.
A pesare sulla reputazione della Jin-Gang-Dhyana, proveniente come le altre sette tibetane dalla corrente Tantrayana o Vajrayana, la difficoltà ad identificarne pienamente gli orientamenti politici e il conseguente comportamento in seno alla società australiana, così come negli altri paesi dove è più o meno presente. Il Maestro Wang partì dal Sichuan nel 1989 trasferendosi in Australia, dopo alcune grane legali in patria: maestro d'arti marziali, era finito in carcere per frodi ed altri reati. Nel 1991 stabilì la propria sede ad Hobart, in Tasmania, e da allora iniziò la sua espansione, con la anscita di nuovi centri e la crescita di seguaci. Probabilmente, in quel momento, il Maestro Wang beneficiava di un certo gradimento da parte del mondo politico e mediatico australiani, così come da parte della locale opinione pubblica, proprio perché visto come perseguitato da parte di un paese giudicato ostile. Successivamente però il Maestro, che aveva riconosciuta come motivata la sentenza del tribunale cinese che a suo tempo l'aveva condannato, ottenne la riabilitazione e ciò gli permise di ritrovare un miglior dialogo anche con Pechino.
Da quel momento, curiosamente, hanno però cominciato a fioccare anche le attenzioni dei media e degli osservatori occidentali su di lui e sulla sua setta, addirittura con l'accusa di svolgere in Australia una funzione di supporto alle politiche governative e “propagandiste” di Pechino. Ora, la cosa in sé appare piuttosto difficile da immaginare, sebbene certamente le antiche ostilità siano state ormai sepolte; ma dopotutto non diverso ragionamento si potrebbe fare pure per altre espressioni ed associazioni non soltanto del Buddhismo o del Cristianesimo cinesi, ma anche della Religiosità Tradizionale Cinese, come ad esempio quello piuttosto celebre dell'Yiguandao, vicino al Taoismo. Lo stesso Maestro Wang, venendo intervistato, ha respinto tali voci, peraltro con toni pure piuttosto recisi verso il governo di Pechino. L'agitazione dei media australiani, e di un po' tutti i media occidentali in generale, riflette probabilmente una certa sinofobia che ormai li pervade sempre di più, al punto magari da indurli a vedere persino nemici per non dir proprio “rappresentanti” o “promotori” occulti di Pechino in persone ed associazioni ben lontane dal volerlo o poterlo fare.
Al Maestro Wang, in conclusione, i media australiani ed occidentali rimproverano una certa ambiguità di fondo, invitandolo forse coi loro attacchi a scegliere da che parte stare: alcune testate minori o più sensibili al tema come AFR, non a caso, hanno agito da avanguardiste in questa mossa, chiedendosi apertamente se fosse davvero un capo buddhista in esilio o non piuttosto un “influencer” di Pechino. Ma è anche vero che a quel tempo il Maestro Wang avesse già parlato della Cina in modo conciliante, descrivendola come il proprio paese natale a cui restare sempre legato, oltre forse a partecipare ad eventi culturali indetti in Australia dalle autorità diplomatiche cinesi e dalle varie associazioni cinesi presenti nel paese.
Probabilmente molte di queste accuse sono alimentate da alcuni particolari centri di ricerca assai influenti in Occidente su molti studiosi in ambito religioso, e del pari anche su molti attivisti in materie politiche e di libertà religiose. Tali centri studi, che varie volte ci siamo trovati a menzionare sugli argomenti più disparati, sono solitamente piuttosto noti per un loro agire assai “interessato” e vicino alle agende politiche europee ed americane ogni qual volta si tratti di elaborare certi dossier. In questo caso, viene spontaneo di pensare soprattutto al centro di ricerche ceco Sinopsis, caratterizzato dall'avere il dente assai avvelenato tutte le volte che si parli di paesi come la Cina e che anche sulla setta del Maestro Wang non a caso ha ultimamente prodotto delle sue abbondanti documentazioni.