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In Kirghizistan, non libertà religiose violate ma laicità e sovranità ribadite

2025-04-12 16:00

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News,

In Kirghizistan, non libertà religiose violate ma laicità e sovranità ribadite

Da circa un mese è stato elevato un cauto allarme riguardo alle nuove leggi in materia di libertà di culto nella piccola ma importante repubblica cent

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Da circa un mese è stato elevato un cauto allarme riguardo alle nuove leggi in materia di libertà di culto nella piccola ma importante repubblica centrasiatica del Kirghizistan. Piccola ma importante perché, nonostante l'estensione e la demografia modeste rispetto alle grosse entità statali circostanti, si trova a controllare suo malgrado un vero e proprio crocevia di traffici e passaggi dall'Asia all'Europa, dal Pacifico al Mediterraneo; si potrebbe dire che sia una delle tante porte dell'Asia Centrale, sede di rotte e passaggi vitali e millenari. Ad elevare quell'allarme, su cui non molti in verità si sono più di tanto soffermati nel nostro paese, sono stati una serie tra accademici ed attivisti ormai da tempo in forze all'ONU come Relatori Speciali, dall'irano-britannica Nazila Ghanea alla colombiana Gino Romero, dalla bangladese Irene Khan all'australiano Ben Saul, fino allo svizzero Nicolas Levrat. Sono tutte delle importanti personalità, tra docenti universitari, legali ed attivisti nel campo umanitario, ma spesso la loro attività s'è associata anche a posizioni politicamente piuttosto controverse, secondo una tradizione purtroppo non così rara tanto all'ONU quanto in certe delle associazioni e delle istituzioni che con costoro vi possono tenere una loro tribuna. 

 

La Ghanea, per esempio, è una docente di grande cultura, che ha prestato il proprio insegnamento a molte cattedre nel mondo; ma come esponente dell'Ufficio OSCE per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani non ha esitato anche a forzare il proprio ruolo, che indubbiamente avrebbe richiesto un approccio ben più diplomatico, attaccando frontalmente il governo ungherese, anche in sede ONU, paragonandone la sua attuale politica religiosa a quella del periodo comunista; con ciò, implicitamente, dandosi a giudizi forse alquanto inopportuni per una figura del suo calibro, sia verso la Budapest di oggi che quella d'allora. Sebbene oggi nessuno di noi si sorprenda a vedere comportamenti anche ben più disinvolti da parte di figure che ricoprono ruoli diplomatici o politicamente sensibili, e basterebbe in tal senso pensare anche soltanto a molti esponenti della Commissione Europea, ciò non dovrebbe costituire comunque una benché minima giustificazione. La Romero, invece, ha costruito sull'attivismo la propria carriera, ad esempio cofondando la Rete Latinoamericana e Caraibica per la Democrazia (REDLAD) ed operando successivamente in entità come Democracy Without Borders ed altre, fino al Consiglio ONU per i Diritti Umani di Ginevra con cui ha svolto un intenso attivismo dall'America Latina al Caucaso fino all'Asia. La Khan, dopo aver prestato il proprio servizio nel quadro dell'UNHCR in India e nei Balcani, soprattutto tra Macedonia e Kosovo, ha ricoperto poi un importante ruolo come Segretario Generale di Amnesty International, concentrandosi sulle crisi che negli anni hanno coinvolto il Pakistan, l'Afghanistan, Gaza e il Medio Oriente, fino alla Colombia e al Burundi; nel 2021 ne ha lasciate le redine con una buonuscita d'oltre 533mila sterline. Non diversamente si può dire anche per i loro colleghi uomini, Saul e Levrat, il primo affermato legale a Sydney, il secondo brillante accademico a Ginevra, col loro ruolo di relatori per i diritti umani all'ONU pervasi sempre da uno zelante rigore nei confronti di qualsiasi ipotetico arbitrio istituzionale verso le libertà personali, a maggior ragione se religiose. 

 

Queste brevi note biografiche sui cinque relatori servono essenzialmente a farci capire come, in ogni provvedimento spesso caldeggiato a tutela dei diritti umani e nella fattispecie religiosi non manchi mai, ad un più attento controllo, anche qualche inevitabile risvolto politico: gli ambiti geografici dove queste ed altre personalità sempre si soffermano col proprio lavoro hanno come comune caratteristica d'appartenere ad obiettivi sensibili per gli interessi politici dell'odierno ordine politico a trazione occidentale ed americana, sui quali il messaggio che deve passare non può che essere quello gradito ad un certo Washington consensus. Difficilmente potremmo immaginarci costoro rivolgere la loro elevata preparazione professionale nei confronti degli abusi settari che vengono a determinarsi all'interno del perimetro occidentale, di cui si fanno portavoce e in una certa misura anche giudici; eppure se ne sentirebbe, in più occasioni, un'urgente e dovuta necessità. Riprendendo alcune delle considerazioni già espresse nel paragrafo precedente, il fatto di rivolgere le proprie attenzioni, anche con una certa vis polemica, solo e soprattutto verso certo obiettivi geografici e non anche su quelli di cui in un certo qual modo si diviene una sorta di rappresentanti, a lungo andare può scalfire agli occhi di molti almeno una parte della propria credibilità.

 

I provvedimenti del governo kirghizo che i cinque relatori hanno denunciato con tanto clamore riguardano alcune politiche, a loro dire restrittive, verso alcune minoranze religiose di recente introduzione nel paese, come ad esempio i Testimoni di Geova, setta peraltro già al centro di non poche vicende giornalistiche e giudiziarie anche nella nostra Europa, in particolare nei paesi scandinavi, per via di vari e ripetuti abusi interni ed una gestione piuttosto opinabile dei fondi. Come raccontato anche in altri articoli pubblicati in passato, sui vari paesi sorti dall'ex impero sovietico, dall'Ucraina oggi dilaniata dalla guerra alla vicina Russia ed altri, fin dagli anni della Perestroijka e nei successivi Anni ‘90 l’infiltrazione di movimenti settari di vario genere è avvenuta a ritmi crescenti. Tutti questi movimenti sono stati sostenuti a vario titolo da Occidente, quando dai gruppi correligionari in Europa e negli Stati Uniti, quando addirittura da agenzie che miravano a portare avanti in modo ancor più strutturato una certa politica di soft power come NED e USAID, ma fin qui non si racconta nulla di nuovo; anzi, la desecretazione di certe carte dagli archivi di Washington, al netto di quelle che vengono e verranno bruciate o fatte sparire prima che possano cadere nelle mani “sbagliate”, certamente potrà raccontarci molti nuovi e pruriginosi elementi di questa già ben nota storia. A tali movimenti, non soltanto dell'area cristiana, s'affiancano poi, sempre coi medesimi sostegni e le medesime finalità, altri di natura islamo-fondamentalista, che hanno più volte scosso la vita della società kirghiza e di molte altre aree dell'Asia Centrale.

 

I due provvedimenti, firmati dalla Presidenza kirghiza, s'intitolano “Sulla libertà di culto delle associazioni religiose” e “Sugli emendamenti a certi atti legislativi della Repubblica Kirghiza riguardo la sfera religiosa” e rappresentano, come già si può intuire, delle modifiche ad altri di preesistenti che prevedevano un diverso numero di fedeli per identificare la natura di una “associazione religiosa” vera e propria, ad esempio 200 anziché 500 membri; il numero ritoccato in alto indica come movimenti un tempo ritenuti trascurabili per entità siano nel frattempo cresciuti per affiliati e diffusione, indubbiamente suscitando l'allarme delle istituzioni locali. Pertanto, viene chiesto ai vari movimenti, il cui attivismo è parimenti cresciuto, di notificare ad esempio con un anticipo di dieci giorni alle autorità i loro rituali pubblici, come ad esempio i pellegrinaggi; altri provvedimenti giudicati restrittivi consistono nel limitare l'insegnamento e la propaganda religiosa fuori dai luoghi consentiti, allo scopo di prevenire altri rischi per l'ordine pubblico, così come la diffusione di materiali di predicazione nei luoghi pubblici ed istituzionali, secondo un banalissimo principio che è quello della laicità dello Stato kirghizo. In sostanza quel che il piccolo paese centrasiatico mira ad ottenere è da una parte una maggior tutela della propria sovranità da certe influenze esterne, che dietro la promozione di un culto religioso nascondono ben visibilmente un più chiaro intento politico,; e dall'altra di ribadire anche la laicità delle proprie istituzioni repubblicane, di recente indipendenza e che hanno più volte scontato negli ultimi anni il soffio malevolo di varie turbolenze confessionali e persino fondamentaliste. La memoria della rivoluzione colorata che scosse il Kirghizistan nel 2005, passata alla storia come la “rivoluzione dei tulipani”, e delle drammatiche azioni di movimenti come l'ISIS-Khorasan, infiltratosi anche nelle sue vallate e nei più reconditi gangli della sua società, hanno lasciato delle profonde ferite sul vissuto di molti kirghizi e delle loro autorità: questo, in ultima analisi, spiega il perché anche di simili provvedimenti, a ben guardare ben lontani dal potersi poi dire così tanto illiberali.

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