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Talebani e ISIS: iconoclastia e mercato di reperti

2021-11-19 11:54

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Talebani e ISIS: iconoclastia e mercato di reperti

Nell'immagine: Museo di Mosul: la sezione razziata dall’Isis della stele del banchetto di Assurnasirpal II (883-859 a.C.) dal palazzo nordovest della

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Nell'immagine: Museo di Mosul: la sezione razziata dall’Isis della stele del banchetto di Assurnasirpal II (883-859 a.C.) dal palazzo nordovest della capitale assira Nimrud.

 

Talebani e ISIS: iconoclastia e mercato di reperti 

Il termine “iconoclastìa” (distruzione delle immagini) è usato per indicare gli episodi di vandalismo/ aggressione/ annientamento di testimonianze e segni di civiltà. Tuttavia il fondamentalismo islamico non si esprime in un’unica forma, né la distruzione sistematica delle immagini di Buddha in Afghanistan e Pakistan (Valle dello Swat) è assimilabile alle distruzioni di siti storici in Siria ed Iraq.


Ben diversa, infatti, l’iconoclastia praticata in Afghanistan dai Talebani, da quella messa in opera in Iraq e Siria. Basti dire che i Talebani, osservanti la rigida etica di derivazione dalla Scuola Deobandi, hanno sempre rifiutato ‘spettatori’ delle loro gesta. Né deve ingannare il fatto che al Qaeda, dal 1988 operativa in Afghanistan in appoggio ai Talebani, ha una genesi e un’ispirazione wahhabita, ma non condivide coi Talebani né ideologia né formazione religiosa. 


Al Museo di Kabul i principali responsabili di distruzioni, razzie e traffico di reperti furono Mujhaeddin dell’Alleanza del Nord e affiliati di al Qaeda (spesso non Talebani). I Talebani al contrario si occuparono di minare i vari Buddha delle valli afghane e pakistane in azioni lontane dal grande pubblico, più ‘silenziose’, che mettevano in atto l’etica deobandi con l’eliminazione di idoli e di condizionamenti ideologici ‘esterni’ per perseguire la ‘Egira interiore’*. Il buddhismo era il nemico dei Talebani: essi intendevano distruggere e annullare prioritariamente quella cultura buddhista che predicava l’inclusione. Testimoni ne erano pastori impauriti o qualche raro abitante locale invisibile agli ‘operatori’.


L’Isis, molto più recentemente rispetto ai Talebani, ha promosso un significativo cambio di metodo: la distruzione degli idoli si trasforma in strumento di lotta e ‘spettacolo’. A venire distrutti sono non solo i resti di culture antiche, ormai lontane e prive di influenza nel mondo reale, ma testimonianze storiche dell’Islam stesso non compatibili con la visione integralista.


Dal 2014, man mano che il gruppo Isis (Daesh) si afferma e in particolare nella città di Mosul, l’iconoclastia diventa un mezzo di guerra sia verso le forze straniere ostili, sia verso le tradizioni islamiche non accettate dal gruppo integralista. Le distruzioni si susseguono in numerosi siti di interesse storico, tra cui la moschea Nur al-Din con il minareto al-Hadba’, fatti esplodere nel 2017. Caso significativo è la vicenda del mausoleo Imam al-Dur, presso Samarra, dove Daesh distrugge il sito in quanto la scuola hanbalita (una delle quattro scuole giuridiche dell’Islam sunnita) non prevedeva l’incisione delle lapidi. Ciò rende anche evidente che l’iconoclastia integralista dei gruppi Isis diventa strumento ideologico diretto contro le diverse tradizioni presenti nella stessa cultura islamica. Con l’episodio del Museo di Mosul del febbraio 2015 sono distrutte statue e opere risalenti agli imperi assiro e accadico. La devastazione viene registrata in un video poi diffuso a livello globale in cui uomini dal volto coperto sono ripresi nel distruggere a martellate opere, riproduzioni e calchi e nel gettare a terra le statue: un atto intenzionale di propaganda. La distruzione finalizzata all’annullamento e al danneggiamento di icone e simboli, presuppone l’esistenza di una motivazione, cioè colpire e aggredire le istituzioni, le dottrine e i valori che stanno al di là dell’oggetto concreto. La visualizzazione assume un significato più forte di iconoclastia performativa.


 Ömür Harmanşah**, specialista di archeologia del Vicino Oriente antico, sottolinea che il concetto di iconoclastia implica un’aggressione volta a rimuovere un ‘potere effettivo’ che risiede in determinate immagini. Secondo Harmanşah, nel caso del museo di Mosul, la distruzione delle statue non rimane un’azione distruttiva di simboli e figure, bensì “oltrepassa tale limite per sfociare nell’ atto performativo che mette in scena la violenza e viene trasmesso al pubblico attraverso gli strumenti della modernità”. Il vero scopo sarebbe dunque produrre uno spettacolo con una doppia valenza: da un lato scalfire simboli di importanza storica, dall’altro esibire la distruzione. 

 

Traffico di reperti in Siria ed Iraq: una testimonianza diretta di Abdul Nasser Qardash (ISis)***
A metà maggio del 2020 le forze di sicurezza irachene hanno annunciato la cattura di uno degli esponenti del sedicente Stato Islamico, che dal 2014 al 2017 ha conquistato il territorio a confine tra Siria nordorientale e Iraq del nord (Raqqa in Siria e Mosul in Iraq).


L’iracheno Abdul Nasser Qardash nel 2011 entra nell’ISis di Abu Bakr al-Baghdadi, proclamatosi Califfo il 29 giugno 2014 a Mosul nella grande moschea di al-Nuri. È di Qardash l’idea di unire i due rami di Daesh presenti in Siria e in Iraq in una sola forza terroristica, centralizzandone il controllo da Mosul. Qardash riesce a scalare le vette del potere diventando emiro del Comitato Delegato dell’Isis, con funzione esecutiva e amministrativa; è vice di al-Baghdadi fino all’uccisione del Califfo nel 2019. Viene arrestato nel maggio 2020 dalle forze di polizia irachene. 


In una intervista rilasciata al Center for Global Policy pochi mesi dopo il suo arresto, Qardash fa delle affermazioni relative al patrimonio archeologico, sostenendo che il successo dei gruppi terroristici in Siria e in Iraq sarebbe in gran parte dovuto alle condizioni di povertà e indigenza in cui vive la popolazione locale, motivo per cui la gente simpatizza per la causa jihadista. Ciò ha favorito e stimolato i saccheggi del patrimonio archeologico, visto sì come simbolo da distruggere, ma anche - e soprattutto - da rivendere illegalmente. E, se i reperti non si riescono a vendere perché troppo famosi, allora si distruggono.


Dice Qardash: “Non avevamo bisogno di coltivare l’hashish, la cocaina, la cannabis. Avevamo a disposizione  un’incredibile abbondanza di antichità. Abbiamo cercato di muovere i reperti in Europa per venderli, ma abbiamo fallito in quattro diversi tentativi. Ciò è vero soprattutto per quei reperti siriani che erano ben conosciuti e documentati come patrimonio mondiale dell’umanità. Quindi abbiamo iniziato a distruggerli e a punire quelli che li contrabbandavano”. Quindi Qardash ammette esplicitamente che l’ISis distruggeva i beni archeologici per meri motivi di propaganda politica e che i terroristi si sono accaniti contro quegli oggetti che, per indiscussa fama e notorietà, non avrebbero avuto mercato. Non si trattava affatto di annientare gli ‘idoli pagani’ per affermare il tawhid (monoteismo assoluto), come sostenevano le campagne mediatiche dei terroristi. Lo scopo era di reclutare adepti, l’ISis sapeva bene che non sono ‘idoli’ quelli che appartengono a religioni morte senza un culto attivo. La distruzione quindi aveva ben poco di teologico, piuttosto era una mossa propagandistico-politica contro il colonialismo che quei reperti rappresentavano, poiché scavati da missioni occidentali ed esposti in musei locali ed europei.


Dalle parole di Qardash è chiaro che i reperti comuni avevano un ottimo mercato di contrabbando, dal momento che non erano conosciuti né si poteva tracciare la loro provenienza. Moltissimi beni archeologici sono confluiti in Europa e negli Stati Uniti durante il mandato triennale dei terroristi a dimostrazione del fatto che, quando si potevano esportare e rivendere, lo si faceva. Una politica quindi legata alle opportunità del mercato. Del resto il Califfo lo aveva apertamente detto: non serviva smerciare droga, poiché la “droga dell’ISis è l’infinita quantità di reperti archeologici”.


In questi ultimi anni, molti ne sono stati sequestrati in Europa e negli Stati Uniti, altri intercettati ai confini di Giordania ed Emirati Arabi, altri ancora rinvenuti nei covi di al Qaeda in Iraq sin dal 2005 e in diversi nascondigli dell’Isis nella steppa siriana. In realtà i reperti di maggior valore economico rimangono nascosti per anni nei covi jihadisti e non si trovano sul mercato internazionale di beni artistici, ma piuttosto sono acquistati con trattative riservate tramite faccendieri legati a mafie. I reperti di particolare pregio finiscono così nelle mani di qualche facoltoso collezionista accompagnati da certificati falsi.

 

Note: *Egira dall'arabo hiǵra “emigrazione, secessione” è l'esodo di Maometto dalla Mecca alla volta di Yathrib. Indica anche, per estensione di significato, il ‘viaggio spirituale’.
**Ömür Harmanşah è Professore presso la School of Art and Art History dell'Università dell'Illinois-Chicago. Ricercatore di storia dei paesaggi in Medio Oriente e politica ecologica di luoghi e patrimonio. É specializzato in arte, architettura e cultura materiale dell'Anatolia, della Siria e della Mesopotamia. Cito il suo libro: “Cities and the Shaping of Memory in the Ancient Near East” (2015).
***Fonte: articolo “Traffico di reperti in Siria e Iraq: parla l’ISIS” in Archeologia Viva, 1 dicembre 2020.

 

Si ringrazia Maria Morigi (autrice di libri come "Il Patrimonio dell'Umanità - Geopolitica, civilizzazioni, ricerca archeologica in Asia Centrale ed Afghanistan""Afghanistan - Storia, geopolitica, patrimonio""Xinjiang 'Nuova Frontiera' - Tra antiche e nuove Vie della Seta", "La Perla del Drago - Stato e religioni in Cina") per questo suo prezioso contributo.


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