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L'Aja, il Festival cinematografico sui diritti umani nel trionfo della strumentalizzazione politica

2023-07-18 20:00

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L'Aja, il Festival cinematografico sui diritti umani nel trionfo della strumentalizzazione politica

A fine giugno ha avuto luogo a L'Aja, in Olanda, la seconda edizione annuale del Festival cinematografico sui diritti umani, evento che vorrebbe porsi

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A fine giugno ha avuto luogo a L'Aja, in Olanda, la seconda edizione annuale del Festival cinematografico sui diritti umani, evento che vorrebbe porsi come di massa e di livello mondiale ma che solo in parte riesce effettivamente a centrare i suoi ambiziosi obiettivi. Se ne ha prova nel non proprio impressionante numero di produzioni presenti, peraltro quasi sempre occidentali e dedicate a violazioni dei diritti umani nel resto del pianeta, ma ben difficilmente proprio nella loro area geografica. Il tutto consegna ai più attenti osservatori l'immagine di un festival soprattutto molto autoreferenziale, utile a pompare la carriera e le sponsorizzazioni di molti attivisti ed agitatori politici del ramo calatisi nei panni di attori, registi e sceneggiatori, o magari di critici di cinema, ma non certo quella di un evento davvero culturalmente più significativo.

 

A tenere l'evento, del resto, è una ONG come Global Human Rights Defence (GHRD), che svolge un vero e proprio lobbismo in materia di diritti umani, visibilmente anche ben ricompensato economicamente parlando e non solo. Vaghe le informazioni reperibili tra i contatti e i dati sui dirigenti dell'organizzazione, ancor più vaghe quelle sulle cause promosse o meglio sarebbe dire riscosse, a dispetto dei vent'anni d'attività vantati. Si vedono però, quelli sì, numerosi articoli che vorrebbero indicare tante nuove cause a cui magari aggrapparsi. 

 

Non a caso, anche i registi di origine straniera sono ormai tutti naturalizzati in Europa, ed affermatisi come veementi oppositori alla politica dei loro paesi. E' il caso, per esempio, di Lolisalam Ulugova, tagika, che guarda caso ha presentato un suo film in cui denuncia proprio i trattamenti sulle minoranze e verso le donne da parte delle autorità del Tagikistan, paese con una popolazione a netta prevalenza musulmana ma comunque laico, come in generale lo è anche consistente parte della sua società. In una società dove forti sono ancora gli elementi conservatori, a tacer di quelli riemersi dopo la fine del governo sovietico, certi fenomeni sono in buona parte intuibili, ma per quanto sia sempre necessari prevenirli e curali restano comunque lontani dal potersi paragonare ad altre ben peggiori situazioni. Chissà come mai, poi, potrebbe pensare qualcuno, che tutte queste attenzioni da parte di élites occidentali ed occidentalizzanti nascano proprio ora che il paese sta sempre più irrobustendo i propri legami con la Russia dopo la parentesi delle passate rivoluzioni colorate e con la Cina sulla scia dello sviluppo della BRI (Belt and Road) e dei relativi e crescenti interscambi economici reciproci.

 

Ancor più veemente il lavoro di Reber Dosky, regista curdo, già al secondo film sulla persecuzione degli Yazidi da parte dell'ISIS: giusto parlarne, ancor meglio però se nei termini appropriati. Ad esempio, non fornendo un quadro della guerra civile siriana assolutorio per gli USA e per l'UE, che l'hanno finanziata e sostenuta favorendo anche la nascita ed il rafforzamento dell'ISIS, insieme ad altre organizzazione islamiste e terroriste come al-Qaeda che venne “riabilitata” dopo qualche anno di “caduta in disgrazia” o la sua affiliata al-Nusra, perché servissero alla causa di rovesciare il governo siriano e proseguire la destabilizzazione di Siria ed Iraq. Che ruolo svolsero, in quel momento, i curdi se non quello di “combattenti paralleli” a queste organizzazioni nel perseguire il medesimo fine, per poi ritrovarsele contro mentre l'Occidente nel frattempo li abbandonava? Se non viene raccontata la verità storica tutto diventa una facile strumentalizzazione politica. 

 

Un altro titolo non meno interessante è quello presentato dall'inglese James Dann e dall'iraniano naturalizzato inglese Mahshad Afar, sul conflitto tra sciiti e sunniti nel Pakistan e in Iran, anche questi temi oggi politicamente caldi per ben note ragioni care ai governi occidentali, tra la campagna anti-iraniana, il lutto che ha pervaso tutto l'Occidente per la pace irano-saudita (ovvero tra le principali potenze rappresentanti di sciiti e sunniti) mediata da Pechino e i costanti tentativi pilotati da Washington per riaffermare la presa sul Pakistan accusato di eccessive confidenzialità con la Cina. Tutto, visto attraverso il suo contesto geopolitico, appare sempre “maledettamente” interessato, e a chi ignora tali dinamiche limitandosi a limitate e millantate questioni umanitarie probabilmente sfugge troppo facilmente la vera motivazione di certe denunce che guarda caso nascono (o rinascono) e crescono sempre di punto in bianco.

 

La tavola conclusiva del Festival, nondimeno, è stata un vero trionfo del “dirittoumanismo” elevato a nuova ideologia politica di matrice neoliberale, e se ne ha una marcata prova nei suoi componenti: oltre alla consigliera di affari internazionali presso il Parlamento Europeo, Manel Msalmi, altri rappresentanti di altrettante ONG, ma soprattutto una discreta ed attiva truppa di esponenti del World Uyghur Congress, di cui tante volte ci siamo già occupati evidenziando l'inconcretezza delle campagne sostenute. Tra costoro, spiccavano il presidente Dolkum Isa ed il suo manager Zumretay Arkin, che sono intervenuti appassionatamente presentando anche un altro loro nuovo testimonial, sotto pseudonimo, l'ennesimo sedicente testimone e vittima della persecuzione da parte delle autorità cinesi sugli uiguri dello Xinjiang. Si capisce anche cotanto zelo: la causa uigura perde quota e i suoi attivisti e promotori devono far di tutto per risollevarla, ovviamente dando il meglio di sé anche per occupare tutte le occasioni in cui sventolare la solita ed abusata bandiera dei diritti umani.


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