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Non solo Falun Gong: altre infiltrazioni e speculazioni sul voto presidenziale a Taiwan

2024-01-19 17:06

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News,

Non solo Falun Gong: altre infiltrazioni e speculazioni sul voto presidenziale a Taiwan

Che le presidenziali a Taiwan fossero un argomento molto sentito, al punto da indurre un vasto mondo politico e culturale ad ingerirvi con varie strum

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Che le presidenziali a Taiwan fossero un argomento molto sentito, al punto da indurre un vasto mondo politico e culturale ad ingerirvi con varie strumentalizzazioni tutte ben lontane dal poter essere provate, era qualcosa di facilmente immaginabile anche ai meno avvezzi in geopolitica e soprattutto di “geopolitica delle religioni”. 

 

Perché parliamo proprio di “geopolitica delle religioni”? Perché questo portale, come i lettori più affezionati avranno notato, proprio di tale tema principalmente si occupa: le correlazioni tra vari movimenti religiosi e pseudoreligiosi in vari paesi, e determinate agenzie governative e non governative, lobbies e gruppi d'interesse d'altri paesi ancora, bene o male sono sotto gli occhi di tutti. E' stato così, solo per citare un caso tra i più celebri, coi movimenti islamofondamentalisti e terroristi come ISIS ed al-Qaeda, e relative diramazioni, in Medio Oriente, Africa Subsahariana ed Asia Centrale: i “mecenati” di quelle “sette armate” sono, chi più e chi meno, tutti abbastanza ben noti all'opinione pubblica. Non solo di gruppi dediti al terrorismo in senso classico parliamo, comunque: in altri casi, in verità i più diffusi ma anche i meno avvertibili in quanto più silenziosi e quindi apparentemente più innocui, il loro operato mira soprattutto a coltivare un particolare “soft power”, basato su una cultura d'impronta religiosa utile ad avvantaggiare proprio gli interessi dei loro “mecenati”. Non a caso, a favorire il gioco dei movimenti islamofondamentalisti vi erano state, prima ancora, fior di scuole coraniche, moschee e centri culturali creati ad hoc nel resto del mondo musulmano da varie potenze della Penisola Arabica in intelligenza con gli USA ed altri paesi occidentali a quel tempo loro alleati preferenziali. Dal Caucaso al Maghreb, dall'Afghanistan al Sahel, quel “soft power” fornì l'humus perché movimenti più pericolosi, dediti al terrorismo e alla presa violenta del potere, fiorissero dando luogo alla guerra civile e all'instaurazione di temporanei Califfati ed Emirati tra Cecenia e Daghestan, Siria ed Iraq, Libia e Nigeria, Mali e Somalia. Ricordiamoci delle “Primavere Arabe”, programmate secondo la Conferenza del Cairo del 2009, tenuta da Barack Obama e dettata da Hillary Clinton, e finanziate dai cospicui fondi di paesi allora strettamente vicini a Washington come il Qatar, l'Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti. Da lì sorsero, nel 2011, le guerre civili in Libia e Siria e le turbolenze in Tunisia, Egitto, Libano e via dicendo.

 

Acqua passata, diremo ora; ed è vero, perché molti dei fatti avvenuti a quel tempo sembrerebbero ormai vicini ad una soluzione, certamente in fase discendente; senza contare che in tanti, in Medio Oriente come nel nostro Occidente, hanno ormai capito cosa successe allora e non siano più disposti a lasciarsi fregare da una certa narrazione mediatica. Ma non si può dire lo stesso per altri fatti ancora, che invece testimoniano quanta strada resti da fare perché si possa approdare ad una sicura soluzione. E' qui che, abbandonando almeno in parte l'esempio dell'islamofondamentalismo, torniamo a parlare di Taiwan e di tutte le strumentalizzazioni sul voto presidenziale che vi sono state da parte di numerosi movimenti religiosi e settari, ben instradati e rifocillati da oltreoceano, per garantire a tutti i costi un risultato che rispondesse a precisi interessi strategici e geopolitici di quanti, in violazione del diritto internazionale come da Risoluzione ONU 2758/1971, a tutto sono disposti pur di evitare che Taipei possa ricongiungersi alla sua Madrepatria. Come già accennavamo nel nostro articolo di ieri, tante sono le ragioni che inducono Washington ad alimentare la separazione artificiale tra le due Sponde, e ciò andando pure contro a quanto precedentemente votato e sottoscritto in sede internazionale dagli Anni ‘70 in poi. Per garantire un buon lavoro, nulla è stato risparmiato nel tentativo d’influenzare il voto a Taiwan: non soltanto a livello internazionale i media e le dichiarazioni ufficiali provenienti da Washington, Londra e Bruxelles facevano di quelle elezioni presidenziali, che sono pur sempre un avvenimento locale per quanto certamente di grande portata anche a livello esterno, un referendum tra il bene e il male a livello mondiale, una riaffermazione della già sentita retorica della lotta tra democrazie ed autocrazie; ma anche sette e movimenti religiosi, più sottobanco, sono stati ugualmente chiamati a raccolta affinché facessero la loro parte influenzando il più possibile il locale dibattito politico. Il tutto, non senza contare sulla fidata collaborazione dell'uscente governo guidato dal PDP, sempre ben disponibile a sostenere la campagna indipendentista che dai risultati elettorali è parsa più importante ad un certo mondo politico americano ed europeo che ai cittadini taiwanesi veri e propri.

 

Il 26 dicembre, per esempio, l'Ufficio per gli Affari con la Terraferma di Taiwan avvisava gli iscritti all'associazione Yiguandao di non viaggiare in Cina perché in caso contrario sarebbero stati immediatamente arrestati dalle autorità. Si trattava di una campagna di terrorismo politico e psicologico, dato che l'associazione mistica e segreta dell'Yiguandao non è inserita in alcun elenco di sette pericolose o sovversive né a Pechino né altrove, e i suoi cittadini da tempo viaggiano tranquillamente nella Madrepatria per incontrarvi parenti, trattarvi affari o godersi un periodo di vacanza. Tant'è che nel corso degli anni numerosi politici e rappresentanti di Pechino si sono regolarmente incontrati con esponenti dell'Yiguandao, in patria o all'estero, rilanciando dei rapporti che si erano interrotti o comunque indeboliti decenni fa: ne parlavamo, già in tempi non sospetti, proprio in un nostro vecchio articolo, valido tuttora. Dunque, nessun pericolo per i devoti dell'Yiguandao, ma certamente la notizia lasciava ben capire a cosa fosse disposto a scendere un certo mondo politico, tra Taiwan e i suoi alleati occidentali, pur di scongiurare risultati elettorali troppo deludenti per la causa indipendentista e l'obiettivo della contrapposizione tra le due Sponde alimentata artificialmente.

 

Mentre, a rianimare la questione islamofondamentalista, provvedevano quegli esponenti dei movimenti separatisti dello Xinjiang, riparatisi in buon numero tra Taiwan, USA ed UE, oltre che in altri paesi “amici” come Canada, Australia e Nuova Zelanda, e sempre dediti a promuovere la loro immagine vestendo i panni degli ingiustamente perseguitati da un potere oppressivo altrui. Un articolista di origine uygura, Kok Bayraq, residente a Washington ed autore per varie testate tra cui “Taipei Times”, dove sempre scrive numerose “fake news” sul genocidio uyguro e la colonizzazione cinese dello Xinjiang, promuovendo e difendendo i gruppi terroristi e fondamentalisti dediti al separatismo, ha per esempio sollevato un gran polverone sulle parole del segretario dell'Associazione per le Relazioni tra le due Sponde dello Stretto di Taiwan, Zhang Zhijun. Questi, chiamato a dare un proprio parere sulle elezioni a Taiwan e sulle implicazioni che avrebbero avuto per i rapporti con la Madrepatria, aveva semplicemente ricordato che i cittadini taiwanesi dovessero essere lasciati liberi di compiere le proprie scelte in votazioni che si tengono ogni quattro anni, lontani da ingerenze straniere e salvaguardando quei buoni risultati raggiunti nel corso del tempo grazie ad una politica di pace e mediazione, come il miglioramento nelle relazioni tra le due Sponde e il loro avvicinamento grazie ad un crescente spirito di comunità e patriottismo. Nulla, insomma, di scandaloso, soprattutto tenendo conto di quel che nel frattempo veniva detto da Washington o da altre parti del “mondo libero”, a maggior ragione se consideriamo che le parole di Zhang Zhijun, per gli abitanti di Taiwan, sono pur sempre le parole di un cittadino cinese come loro. Ma evidentemente questo aspetto sfuggiva a Kok Bayraq, che né con Taiwan né con la Cina continentale vorrebbe mai avere a che fare: vive a Washington e la sua patria ideale ed immaginaria è un misterioso “Grande Turkestan” a guida fondamentalista. Tanto che, nel suo idioma, “Kok Bayraq” proprio questo significa: è il nome della bandiera del Grande Turkestan, non certo un nome di persona: non male come pseudonimo ad uso giornalistico. Che tutto ciò, parimenti, possa sfuggire anche a molti suoi sodali occidentali, americani ed europei che siano, così pronti a farsi imbeccare da certe sue propagandistiche banalità, men che meno ci può meravigliare.

 

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